Incontri

Bregantini: «Il diaconato ha il sapore della primavera»

L'arcivescovo mons. Giancarlo Bregantini, già vescovo a Locri e Campobasso, ha guidato gli Esercizi spirituali dei diaconi ordinati lo scorso 5 ottobre.
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L’intensità del suo ministero e la luminosità della sua fede, che hanno affascinato i nostri diaconi, si colgono anche in questa sua testimonianza.

Che impressione ha avuto dagli Esercizi spirituali ai nostri diaconi? Cosa ha voluto soprattutto comunicare?
È stata un’esperienza innovativa e stimolante anche per me, perché predicare ai diaconi, prima della loro ordinazione, è un dono e un impegno che mi ha onorato. Mi sono sentito da loro molto osservato, scrutato da simpatici occhi giovanili. Volevano accertarsi dell’autenticità del mio dire, per capire quali esperienze sostenevano le mie meditazioni, attratti dal mio entusiasmo e dalla mia Bibbia ormai sfascicolata, per il costante uso in tanti anni. Questo clima di “curiosità” ha reso la mia predicazione molto “narrativa”, con tempi forse un po’ lunghi, ma coinvolti nella narrazione, ricca di interesse. Lo stile della narrazione mi ha permesso di essere molto aperto, privilegiando la testimonianza, raccolta dalla mia lunga attività di diacono, prete e poi di vescovo, in una serie vivace di racconti. Così vi ho innestato i miei trent’anni di vescovo e quarantasei di diaconato e sacerdozio, in un’amabilità narrativa che ha reso gli Esercizi molto discorsivi, fatti di esempi e di tono esortativo.
Anche per questo abbiamo sentito vicino la figura di Barnaba (del resto, valorizzata anche dall’arcivescovo, mons. Delpini, nella sua interessante Lettera per questo anno pastorale). Barnaba era “figlio dell’esortazione”. Di lui ci colpisce la schietta sinodalità, riportata dagli Atti, quando è inviato dalla comunità di Gerusalemme ad Antiochia, per verificare l’insolito fatto di un’evangelizzazione spontanea, opera feconda di laici coraggiosi.
Il diaconato ha sempre il sapore della primavera, che poi maturerà nell’estate prossima con i frutti dolcissimi, nell’atteso giorno del sacerdozio. È stato bello, allora, ripercorrere la storia affascinante del giovane Giuseppe, venduto dai suoi fratelli in Egitto, ma poi capace di costruire per loro una solida rete di liberazione, nella forza esemplare del suo eroico perdono per loro. Giuseppe e i fratelli sono infatti usciti insieme dal labirinto del male. Sempre insieme!
Così siano i diaconi. Costruttori di reti solidali, nella realtà complessa degli oratori milanesi, chiamati a dare risposte adeguate ai pomeriggi troppo lunghi dei nostri adolescenti, alla ricerca di un senso appagante per la loro vita inquieta. La stessa festa gioiosissima, organizzata per loro, con i colori e le grida dello stadio, vissuta con ragazzi alla fine della liturgia in piazza Duomo, è stata una lezione di pastorale. Vi si respirava la bellezza di volti nuovi e freschi, nella gioia comune. Striscioni eloquenti e impegnativi per i neo diaconi! Tante, infatti, sono le attese su di loro, tra i ragazzi, nelle parrocchie e negli oratori, quasi a dire che non ci si può accontentare delle realtà attuali! Costante e dolce il riferimento a Maria di Nazaret, specie nel Magnificat che ci insegna l’arte del magnificare (e non del minimizzare!). Lei raggiunge Elisabetta, dopo aver vissuto i cinque verbi del diaconato: «Si alzò con sollecitudine; entrò; salutò; il bimbo sussultò; cantò». C’è tutto lo stile di ogni diacono: sollecito nella premura verso i poveri, che visita tutte le famiglie (la visita resta sempre la migliore predica, come spesso mi ripete mio fratello Pierino, vero contadino della Val di Non). Il diacono sa portare lo Shalom di pace nelle case; crede in un futuro che fa sobbalzare e infine sa sempre magnificare le relazioni fraterne, da vero educatore, come era don Lorenzo Milani. Questo prete di montagna è stato, in quei santi giorni di Esercizi, la nostra guida per servire i poveri, imparando da lui, che aveva aperto un singolare oratorio di sollecitudine (I Care, “mi interessa”, “ho a cuore”), restituendo dignità a ragazzi di montagna. E ne ha intuito la via: donare a loro la Parola!
Singolare è poi il saper trasformare la notte del tradimento di Giuda nella notte dell’amore, tramite il dono del pane eucaristico, simile alla fissione nucleare che trasforma in energia positiva l’energia distruttiva dell’atomo, utilizzando l’immagine originalissima di papa Benedetto nella Gmg di Colonia, nel 2005. Trasformare è allora il verbo che attraversa la vita di ogni diacono e prete: il male in bene, la notte in giorno, la violenza in amore.
Veramente non sono giovani esagerati, ma sono giovani «consacrati nella verità », con quel versetto di Gesù, da loro scelto e da noi ripetuto ogni giorno nella Messa.

Nella sua vita, cosa ha significato la dimensione diaconale, cioè il servizio di Gesù “venuto per servire”?
Io sono diventato diacono nel maggio 1977, nella bella cattedrale di Crotone. Accanto avevo, per una singolare coincidenza, la nota figura di fratel Carlo Carretto, anch’egli diacono, che narrava alla gente le varie fasi della liturgia, e mi ha lasciato nel cuore un’ulteriore consapevolezza del mistero fascinoso di quel giorno. Anche lui «consacrato nella verità» per la sua vita esemplare per tutti, a cominciare dalla mia vita personale, quando proprio fratel Carlo, al termine del liceo, nell’estate del 1969, mi chiarì fastidiosi dubbi sulla mia scelta sacerdotale, rassicurandomi sulla volontà di Dio nei miei confronti, con una esortazione preziosa: pratica l’adorazione e mettiti sempre al servizio dei poveri.
Così, da vescovo, ho tanto esultato quando aveva la grazia di ordinare dei diaconi. Per questo ho molto insistito sul perdono, come condizione che ci libera dal passato e ci rende aperti a un futuro nuovo. Questo è il cuore della scelta diaconale: vivere da redenti, cioè da peccatori perdonati, in gratuità e verità.

Cosa porta maggiormente nel cuore del ministero così variegato che poi ha vissuto?
Sento che tutto ha avuto un senso nella mia vita, per esperienze intrecciate in modo inatteso. Mi piace il verbo “compiere”, che la Lettera agli Ebrei ben evidenzia e la liturgia completa. Perché la vita non è un semplice “fare”, ma un realizzare un disegno, da Dio pensato, per tessere un arazzo, che diventa ogni giorno sempre più bello e colorato.
Qui ritrovo il dono più bello che il Signore mi abbia dato: saper ritrovare il senso del vivere e poterlo insegnare agli altri, con semplicità e chiarezza. Per questo adoro il diario, lo facevo già da ragazzo, con gioia. Mi libera dalle ansie vane, create da spine che fanno male se non sono narrate nella scrittura del diario.
Ringrazio Dio, perché quel filo io non l’ho mai perso, anzi l’ho ravvivato, luogo per luogo, età per età: infanzia in Trentino tra i campi di mele, giovinezza formativa in Seminario dagli Stimmatini a Verona, l’esperienza di due anni in fabbrica da operaio lungo la teologia, il Sud con nuove scoperte di lacrime e di speranze specie nella sfida alla mafia e l’avventura delle cooperative trentine nella Locride, lo studio serio della Storia della Chiesa alla Gregoriana a Roma con l’insegnamento di Storia ecclesiastica nei seminari, la dura esperienza di cappellano in carcere a Crotone e in ospedale a Bari, la guida dei teologi stimmatini come formatore. E poi gli anni dell’episcopato a Locri-Gerace e a Campobasso. Tutto questo ha dato alla mia vita il sapore di un arazzo ben compiuto, di cui sono gratissimo al Signore, imitando la fede di Madre Teresa, quando parla della «matita di Dio».

Come vede e come desidera il ministero dei preti giovani, oggi, nella Chiesa?
I preti giovani io li vorrei così come la storia ce li chiede. Nella verità di una teologia che si incarna nell’antropologia, generando parole nuove e immagini luminose, per farci dono di omelie di forte valenza kerigmatica, alte di cuore, ma sagge nella concretezza, dal sapore mistico dei prefazi ambrosiani, incantevoli nelle immagini e armoniosi nel ritmo, imitatori di quell’Ambrogio, capace di fermare il cattivo sulla porta della Chiesa, pronto a vendere i calici per liberare gli schiavi, ma dolcissimo nel cantare inni, tali da rapire, con la loro bellezza, il cuore di Agostino.
Preti che sanno essere sempre “gratuiti”, non solo per l’aspetto economico, ma ancor più per la disponibilità di tempo e di cuore nell’ascolto dei poveri e degli ammalati, visitati spesso, in una prossimità evangelica edificante.
Li vorrei poi belli, i preti giovani, così come li sognava la grande mistica, che io tanto ammiro e amo: Ildegarda di Bingen, con abiti liturgici ben curati, dal canto vivace e con incensieri fumiganti, come quella mattina dell’ordinazione in Duomo. Pronti subito, poi, a portare l’Eucaristia all’anziano vescovo, emerito, Angelo, di 95 anni, seduto serenamente in presbiterio, come ha fatto quella mattina il nostro diacono Chadrack.
Per questo, ci è stato di aiuto negli Esercizi la rilettura attualizzata del lupo di Gubbio, dai molteplici insegnamenti che disegnano come un itinerario pastorale anche per ogni prete novello: mai fuggire, sempre vigilare; saper discernere le cause profonde del disagio sociale che ci circonda; organizzare con sapienza risposte vere e durature; riconciliare gli ambienti nella logica della fraternità; sempre cantare e benedire.

C’è un consiglio che può dare a chi sta vivendo il tempo della formazione in Seminario?
Integrare la fondamentale formazione scolastica, dentro il Seminario, con alcune esperienze di vita, in mezzo ai poveri e ai lavoratori, per un paio di anni. Allora il Seminario sarà veramente come Nazaret, per non dimenticare quello che dice il Concilio nella Gaudium et Spes, n. 22: «Gesù ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo e ha lavorato con mani d’uomo». Ogni dimensione è fondamentale nella formazione di un futuro prete, sotto gli occhi di Maria e di Giuseppe: pensare, agire, amare, lavorare! Mente, volontà, cuore e mani.
Per chiudere: un rinnovato grazie ai saggi educatori dei diaconi, sempre presenti in mezzo a loro, anche in questa settimana di luce. E un grazie all’arcivescovo, mons. Mario Delpini, così originale nelle sue omelie, che ho conosciuto anni fa sulle colline sassose dell’Aspromonte, insieme a un gruppo di seminaristi, per una singolarissima esperienza pastorale, ai piedi di Maria di Polsi, Madonna della Montagna, a cui dedico questo mio ricordo, fraterno e grato.
Amen.

Tratto dal numero 11 (Novembre 2024) di “Fiaccola”